Per lo storico che vuole ricostruire le vicende di un paese è molto importante l'analisi del Catasto Onciario. Pur essendo un documento arido e ripetitivo, risulta una fonte imprescindibile per la storia nel Settecento, dei nuclei familiari autoctoni, dei movimenti di popolazione e del paesaggio agrario e urbano, per la conoscenza delle condizioni socio-economiche e per lo studio dell'onomastica, soprattutto dell'antroponimia e della toponomastica.
Lo studio di tale documento, relativo a Salle, ha permesso la redazione della parte iniziale del saggio che leggerete di seguito.
Lo studio di tale documento, relativo a Salle, ha permesso la redazione della parte iniziale del saggio che leggerete di seguito.
Tratto da
Katja Battaglia, Una piccola grande arte sallese: la produzione di corde armoniche, Museo delle Corde Armoniche, Salle 2014, p. 5-8.
Katja Battaglia, Una piccola grande arte sallese: la produzione di corde armoniche, Museo delle Corde Armoniche, Salle 2014, p. 5-8.
Nel secolo XVIII il mestiere del
cordaio era una delle principali attività di sostegno a Salle. Il catasto
onciario del 1746[1],
infatti, su cento capifamiglia attesta trenta cordai e un commerciante di corde
di budella, Domenico Antonio Angelucci. Tra le dieci vedove, Giacinta Di Fiore
di cinquanta anni, moglie di Venanzio
Salerni, è indicata come proprietaria di un negozio di corde a Foggia.
La lavorazione delle corde armoniche
continuava ininterrottamente fino ai nostri giorni con una breve pausa nel
secolo XX, durante la prima e la seconda guerra mondiale. In tale periodo un
cordaio che ha ricevuto diversi riconoscimenti, di richiamo nazionale, è
Roberto Salerni.
Oggi non mancano le aziende di Sallesi
impiantate in America conosciute a livello mondiale. Un esempio è quello della
famiglia Mari. Ma la più grande è la J.
D’Addario & Company, Inc., che si trova a Farmingdale negli USA. È la
realizzazione del sogno di ogni emigrante e nasce da Charles e Rocco D’Addario,
che avevano deciso di lasciare Salle per esportare la loro conoscenza nella
fabbricazione delle corde armoniche e nel 1920 fondavano una società con
Ladislav Kaplan.
La qualità della corda era molto
importante per il musicista. Niccolò Paganini si riforniva a Napoli. Così
scriveva all’amico e confidente Germi, il 29 maggio 1829: “Il tuo Paganini desidera sapere […] quanti mazzi di cantini e quanto di
seconde, e a quante fila si desiderano da Napoli, perché ora si avvicina il
mese di agosto, epoca giusta per fabricar le corde”. E ancora a De Vito, in
una lettera datata 31 luglio 1829: “Ho
bisogno di un favore: ponetevi tutta la cura, e la diligenza. Mi mancano i
cantini. Io li desidero sottilissimi […]. Quantunque tanto sottili devono
essere di quattro fila per resistere. Badate che la corda sia liscia, uguale, e
ben tirata […]. Vi supplico di sorvegliare i fabbricanti e di far presto e bene”[2].
Riguardo a quest’ultima affermazione i cordai sallesi sono concordi nel dire
che, a parità di diametro finale, una corda composta da quattro budella sottili
risulta molto più regolare, duratura, non fallosa, qualitativamente superiore
rispetto a quella realizzata con tre budella. Ecco perché Niccolò Paganini
faceva questa richiesta e arrivava perfino a far sorvegliare i cordai
napoletani da una persona fidata.
Una testimonianza relativa all’attività
del cordaio nella prima metà del secolo XX è fornita da Isidoro Marcucci,
rilasciata in un’intervista del 1994. Racconta che nel 1922 a tredici anni, in
seguito alla morte del padre, la madre si era raccomandata ad un certo Morante
per farlo lavorare come cordaio. Guadagnava quattro lire e mezzo al giorno,
1200 lire al mese, molto più di un operaio generico, la cui retribuzione
mensile era di 900 lire. Riferisce che i Sallesi andavano a lavorare a Napoli
presso i quartieri di Secondigliano e Ponticelli, dove c’erano fabbriche
appartenenti a persone del paese, per apprendere il mestiere. Lui stesso oltre
che nelle località suddette aveva esercitato il mestiere a Foggia, a
Benevento, a Sulmona, nell’azienda di
Vincenzo Conte di Musellaro e a Salle, per i Di Monte ed altri.
Don Dino Galteri spiega che i cordai si
spostavano da Salle a Napoli in continuazione e che le loro botteghe erano
focolai d’infezione, tanto che agli inizi del secolo XX, secondo quanto
tramandano le fonti orali, alcuni sallesi venivano contagiati dal colera.
Comunque nello sfoglio del Liber Mortuorum, custodito presso l’Archivio
della Parrocchia SS.mo Salvatore, Don Massimo Colella rileva la morte di tredici
cittadini per l’anno 1911, nei mesi luglio e agosto. Riferisce, inoltre, che
solo in quella data si sono riscontrate
morti a causa della diffusione dell’epidemia. I cittadini deceduti sono Salvatore Colangelo (85), Rosa Salerni
(35), Liberata Lattanzio (74), Liberata Di Virgilio (82), Francesco Di
Benedetto (53), Filomena Salerni (60), Nunzio Nanni (56), Maria Soccorsa (43),
Luca Manieri (71), Florindo Ruffini (53), Francesco Colangelo (71), Vincenzo
Maurizio (3), Terenziano Di Virgilio (58)[3].
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