lunedì 22 agosto 2016

LE CORDE ARMONICHE DI SALLE DAL CATASTO ONCIARIO AI TEMPI ATTUALI

   Per lo storico che vuole ricostruire le vicende di un paese è molto importante l'analisi del Catasto Onciario. Pur essendo un documento arido e ripetitivo, risulta una fonte imprescindibile per la storia nel Settecento, dei nuclei familiari autoctoni, dei movimenti di popolazione e del paesaggio agrario e urbano, per la conoscenza delle condizioni socio-economiche e per lo studio dell'onomastica, soprattutto dell'antroponimia e della toponomastica.
      Lo studio di tale documento, relativo a Salle, ha permesso la redazione della parte iniziale del saggio che leggerete di seguito. 

Il mestiere del cordaio 
Tratto da 
  Katja Battaglia, Una piccola grande arte sallese: la produzione di corde armoniche, Museo delle Corde Armoniche, Salle 2014, p. 5-8.


Nel secolo XVIII il mestiere del cordaio era una delle principali attività di sostegno a Salle. Il catasto onciario del 1746[1], infatti, su cento capifamiglia attesta trenta cordai e un commerciante di corde di budella, Domenico Antonio Angelucci. Tra le dieci vedove, Giacinta Di Fiore di cinquanta anni, moglie di Venanzio  Salerni, è indicata come proprietaria di un negozio di corde a Foggia.
         La lavorazione delle corde armoniche continuava ininterrottamente fino ai nostri giorni con una breve pausa nel secolo XX, durante la prima e la seconda guerra mondiale. In tale periodo un cordaio che ha ricevuto diversi riconoscimenti, di richiamo nazionale, è Roberto Salerni.
         Oggi non mancano le aziende di Sallesi impiantate in America conosciute a livello mondiale. Un esempio è quello della famiglia Mari. Ma la più grande è la J. D’Addario & Company, Inc., che si trova a Farmingdale negli USA. È la realizzazione del sogno di ogni emigrante e nasce da Charles e Rocco D’Addario, che avevano deciso di lasciare Salle per esportare la loro conoscenza nella fabbricazione delle corde armoniche e nel 1920 fondavano una società con Ladislav Kaplan. 
         La qualità della corda era molto importante per il musicista. Niccolò Paganini si riforniva a Napoli. Così scriveva all’amico e confidente Germi, il 29 maggio 1829: “Il tuo Paganini desidera sapere […] quanti mazzi di cantini e quanto di seconde, e a quante fila si desiderano da Napoli, perché ora si avvicina il mese di agosto, epoca giusta per fabricar le corde”. E ancora a De Vito, in una lettera datata 31 luglio 1829: “Ho bisogno di un favore: ponetevi tutta la cura, e la diligenza. Mi mancano i cantini. Io li desidero sottilissimi […]. Quantunque tanto sottili devono essere di quattro fila per resistere. Badate che la corda sia liscia, uguale, e ben tirata […]. Vi supplico di sorvegliare i fabbricanti e di far presto e bene[2]. Riguardo a quest’ultima affermazione i cordai sallesi sono concordi nel dire che, a parità di diametro finale, una corda composta da quattro budella sottili risulta molto più regolare, duratura, non fallosa, qualitativamente superiore rispetto a quella realizzata con tre budella. Ecco perché Niccolò Paganini faceva questa richiesta e arrivava perfino a far sorvegliare i cordai napoletani da una persona fidata.
         Una testimonianza relativa all’attività del cordaio nella prima metà del secolo XX è fornita da Isidoro Marcucci, rilasciata in un’intervista del 1994. Racconta che nel 1922 a tredici anni, in seguito alla morte del padre, la madre si era raccomandata ad un certo Morante per farlo lavorare come cordaio. Guadagnava quattro lire e mezzo al giorno, 1200 lire al mese, molto più di un operaio generico, la cui retribuzione mensile era di 900 lire. Riferisce che i Sallesi andavano a lavorare a Napoli presso i quartieri di Secondigliano e Ponticelli, dove c’erano fabbriche appartenenti a persone del paese, per apprendere il mestiere. Lui stesso oltre che nelle località suddette aveva esercitato il mestiere a Foggia, a Benevento,  a Sulmona, nell’azienda di Vincenzo Conte di Musellaro e a Salle, per i Di Monte ed altri.
         Don Dino Galteri spiega che i cordai si spostavano da Salle a Napoli in continuazione e che le loro botteghe erano focolai d’infezione, tanto che agli inizi del secolo XX, secondo quanto tramandano le fonti orali, alcuni sallesi venivano contagiati dal colera.
         Comunque nello sfoglio del Liber Mortuorum, custodito presso l’Archivio della Parrocchia SS.mo Salvatore, Don Massimo Colella rileva la morte di tredici cittadini per l’anno 1911, nei mesi luglio e agosto. Riferisce, inoltre, che solo in  quella data si sono riscontrate morti a causa della diffusione dell’epidemia. I cittadini deceduti  sono Salvatore Colangelo (85), Rosa Salerni (35), Liberata Lattanzio (74), Liberata Di Virgilio (82), Francesco Di Benedetto (53), Filomena Salerni (60), Nunzio Nanni (56), Maria Soccorsa (43), Luca Manieri (71), Florindo Ruffini (53), Francesco Colangelo (71), Vincenzo Maurizio (3), Terenziano Di Virgilio (58)[3].




[1]Archivio di Stato di Napoli, Archivio della Regia Camera della Sommaria, vol. 3282, anno 1746, pp. I-VIII, ff. 1-317.

[2]Nicolò Paganini. Registro di lettere 1829, a cura di E. Neil, Genova, Graphos, c. 1991, p. 20. Paganini. Epistolario, a c. di E. Neil, Genova, Siag, [1982], p. 49.


[3]Archivio Parrocchia SS.mo Salvatore, Liber Mortuorum anno 1911.

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